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Competere rafforza o intossica?

Lo scenario

Viviamo in una società competitiva che scatena rivalità senza esclusione di colpi.

E’ il comportamento aggressivo come modello per farsi largo nella vita

Sergio Quinzio

 

Esaminando una nostra giornata tipo, possiamo renderci conto di quanto la cultura prevalente enfatizzi l’individualità e l’indipendenza a scapito di una visione scientifica fondata sulla natura  interattiva e cooperativa della vita.

In tale prospettiva, lavorare su una maggiore consapevolezza umana permetterebbe di favorire l’accesso all’interiorità e nel contempo constatare con semplicità come essa sia intimamente intrecciata con i processi di vita degli altri esseri umani.

Approfondire questo importante aspetto amplia e fornisce un ampio respiro al nostro campo di indagine e ribadisce la grande connessione insita nella realtà che ci circonda.

Dunque, ad un osservatore lucido e acuto, non sfugge sicuramente che è la relazione  il principale medium dell’esistenza umana. Una vasta letteratura ci conforta.

Di fatto l’attuale incrinarsi dei tessuti relazionali, i comportamenti aggressivi e prevaricatori, le tensioni e i costanti conflitti sono percepibili nel nostro quotidiano e oltre esso.

 Il tema della competizione, per essere compreso, va calato in questo primo quadro.

Un excursus breve sull’individualismo[1], padre certo della competizione, ci fa capire come l’individuo si affacci, come categoria di pensiero, nel Rinascimento per poi trovare nel 600 e 700 una sua collocazione e riconoscimento divenendo unità separata e fondamentale della società.

Diritto di proprietà e libera disposizione di sé,ne sanciscono la piena legittimazione. Con l’Illuminismo si delinea il soggetto di diritti.

Nell’ottocento poi l’individualismo si diffonde lentamente in tutta la società e durante la prima metà del novecento esso diviene il paradigma del pensiero democratico e liberale.

Nel tempo stigmatizza la cultura occidentale dando spazio anche ad inevitabili derive e banalizzazioni, ma lasciando un’ impronta decisiva nel nostro vivere civile.

L’idea di individualismo, nella accezione comune, significa pensare soltanto a sè stessi contro le norme del vivere comune, una eccessiva considerazione di sè, una sorta di asocialità che può tradursi in un egoismo accentuato.

Il neoliberalismo ha inoltre contribuito ad esaltare, in ogni attività, il lato competitivo implementando un continuo gareggiare con individuazione di vincenti e perdenti a detrimento di una visione collaborativa dei rapporti umani.

L’ individuo soggetto economico si è imposto socialmente nella nostra civiltà dei consumi,  è dai primi del 900 che si assiste ad una vera e propria contrapposizione tra visioni antropologiche fondate su individualismo e competizione da una parte e collaborazione e solidarietà dall’altra.

Oggi, immersi come siamo nella tecné,ognuno individualmente connesso ma inesorabilmente solo nella sua stanza, e non intenzionalmente come suggeriva Pascal bensì necessitato, ognuno separato dall’altro, “distanziato”, siamo chiamati  ad andare  più a fondo su questi temi.

Mia intenzione in questo scritto è comunque non perdere dell’individualismo il  concetto fecondo del rispetto della Persona laddove descrive l’unicità e l’irripetibilità

di ogni essere umano, fondamento di ogni sana relazione.

La nostra storia occidentale si distingue proprio in questo processo di emancipazione e liberazione umana di cui siamo portatori e responsabili di fronte al mondo.

 

Competere con noi stessi ?

Sono in competizione con me stesso e sto perdendo…

Rogers Waters

 

Se competere significa chiedere il massimo a noi stessi e favorire il miglioramento degli altri, nella consapevolezza che ogni  contributo è insostituibile sul piano dell’Essere, allora competere con se stessi delinea un atteggiamento vitale e costruttivo che completa quella “attitudine alla riuscita” di cui parlava Mc Clelland, una forte spinta positiva a fare bene qualcosa.

Mi sono occupata di sviluppo umano nel mio percorso professionale e ho sempre lavorato sul desiderio di crescita insito nelle persone spingendo l’acceleratore sul piacere di aumentare conoscenza di sé e del mondo al fine di rafforzare la propria autostima e di conseguenza quella di coloro con i quali ci rapportiamo, creando così ambienti relazionali di ben-essere generativo.[2]

Ho sperimentato, partendo in primis da me stessa, come una persona che si apprezza, che vuole migliorarsi costantemente, che vive i cambiamenti come opportunità, riesca a costruire intorno a sé un clima evolutivo che condiziona la promozione di tutti gli attori in campo.

Abbiamo decisamente un’idea rigida ed obsoleta di competizione che la relega in un angolo buio della nostra coscienza, caricandola di sensi di colpa e di negatività, permeata di quei riflessi storici che abbiamo richiamato.

In effetti, non possiamo negarlo, molta competizione che vediamo praticata ha connotati non condivisibili proprio perché trasmessa e vissuta nella declinazione alterata.

A tal proposito faccio una breve digressione sul nostro passato scolastico, per me patrimonio prezioso di esperienza, dal quale ho tratto il metodo che applico in campo formativo.

Da discente, ricordo con chiarezza la competizione sulle votazioni e sulle perfomance, spesso utilizzate da alcuni docenti a fini denigratori verso chi più debole intellettualmente o semplicemente meno interessato o, ancora, preso da altre problematiche di natura personale, con risultati nefasti di abbandoni scolastici e derive di degrado sociale.

Le logiche del pensiero che sostenevano l’idea che “stigmatizzare la non riuscita” rafforzasse lo studente o comunque, nella peggiore ipotesi, lo eliminasse dal contesto, era/è ancora altamente consolidata.

Filosoficamente è la vulgata del principio hobbesiano dell’homo homini lupus e del  darwiniano sopravvive il più forte.

Inoltre tale approccio si sposa con la considerazione dell’errore come una macchia indelebile, non si può sbagliare, quindi favorendo un modello educativo incentrato sulla replica di nozioni e non sulla creatività.

Queste direzioni sono alquanto scivolose, erosive del valore della Persona umana, l’io unico e irripetibile, della ricchezza assoluta che ognuno di noi rappresenta. Direzioni da riconsiderare criticamente per intraprendere vie che aprono nuove visioni.

 

Relazioni costruttive VS Il tutti contro tutti

Saggio è colui che nell’altro trova di che istruirsi

Dal Pirqe Abot

 

Partire dall’Io Unico schiude l’orizzonte a considerazioni importanti, diventare una Persona costruttiva è il secondo passo dopo aver preso coscienza del proprio valore individuale.

Siamo allenati sin da piccoli a combattere la vita come una battaglia, a vedere l’altro come un nemico, ad invidiare la sua posizione.

Sono certa che questa non è competizione, bensì è la sua declinazione violenta e arida, è un invito più o meno esplicito alla conflittualità, essa porta ad un graduale ed inevitabile  declino umano.

Ben altra cosa è relazionarmi con gli altri con l’obiettivo di emulare, capire, apprezzare , imparare,cogliere, in una parola svilupparmi.

Se sostengo un colloquio di lavoro, oppure presento un progetto, o ancora vendo un prodotto, competo con altre persone, mi metto in gioco,  metto in campo la parte migliore di me e il mio atteggiamento è che vinca il migliore.

Dal migliore, ognuno di noi, ha tutto da apprendere, il migliore mi insegna, io osservo e tesaurizzo, non mi autoescludo in un angolo e mi blocco, la prossima volta offrirò una performance più alta.

Qui sta, a mio avviso, il nodo gordiano da sciogliere sulla competizione:

partecipare dando il massimo, rispettando le regole ed accettando il confronto leale con gli altri.

Vero è che assistiamo a contesti di tutt’altro segno.

 Questo non giustifica la lotta selvaggia e il coltello tra i denti e non ci esime dal lumeggiare un’altra visione di questa modalità relazionale molto più interessante per il singolo individuo e per la collettività.

Negli anni di lavoro e di vita mi sono trovata in competizioni aggressive, subdole, violente e sleali. Ne ho preso atto, esaminato le cause, gli effetti e le dinamiche, e ne ho tratto vantaggio. Mi è capitato di lottare o resistere portando a casa un risultato anche immediato, come, d’altro canto, ho vissuto sconfitte cocenti e anche rinunce.

Sempre e comunque ho imparato, ho riflettuto sull’accaduto, e la ferita, se osservata attentamente spesso si trasforma in feritoia, occasione preziosa per intravedere nuove opportunità.

 Tra i frutti che ho raccolto vi è la creazione di  un caso di scuola di alta formazione [3]coadiuvata da persone che hanno sposato un approccio diverso.

 

Competizione e competenze

Quello del voler essere sempre il numero uno è un fenomeno antico, già noto ai tempi dell’Iliade quando Peleo dà i consigli al figlio Achille e gli dice: ”Ricordati che la prima cosa è primeggiare sopra a tutti e sempre”. Quindi questo imperativo categorico della società attuale è antico quanto la storia del mondo, anche se tutto questo non genera benessere, ma genera ansia. Soprattutto per i più piccoli e per i più giovani che sono più esposti alla pubblicità, alla dimensione mass mediale dentro la quale siamo inseriti e che effettivamente nutre le nostre menti, che dà origine alle parole che pronunciamo, ai consigli educativi che diamo ai nostri figli. Questa è una società che ti vuole sempre al top delle prestazioni, nella forma fisica, ti vuole super giovane, super bello. Tutto ciò può avere anche il suo riscontro positivo, ma quando diventa fonte di agonismo permanente nei confronti degli altri percepiti sempre come competitor, la vita diventa una corsa che ci toglie il fiato, ci mette ansia, ci rende infelici e ci dà un senso di frustrazione.

Vito Mancuso

 

Nel metodo formativo che ho contribuito ad elaborare e diffondere, la Persona è al centro e su di essa si misura ogni attività.

Tra le numerose e variegate esperienze proposte, la maggior parte sono articolate in team che si confrontano apertamente tra loro.

Lavoriamo molto sulle competenze, frutto di cultura e capacità ma anche di comportamenti che si acquisiscono dalle persone che ci affiancano.

Voglio soffermarmi sul fatto della comune radice etimologica della parola competenza e competizione che non è certo casuale.

La competizione richiede espressamente competenze, esse costituiscono una conditio sine qua non per realizzare una vera e sana competizione.

La derivazione semantica è dal latino petere che si traduce dirigersi, andare,  cum che significa con, insieme, dunque il dirigersi  verso un obiettivo comune.

La competenza, alla luce dell’origine semantica, è la qualità essenziale per partecipare alla competizione.

Senza la messa in campo di competenze non vi può essere una buona competizione bensì un pericoloso livellamento, una selezione con criteri legati ad altri mezzi quali lobby, amicizie, raccomandazioni, logiche di potere.

Dobbiamo emanciparci dalla accezione negativa di competizione che giunge a configurarsi come un vero e proprio pre-giudizio e a minarne il giusto significato.

Tra i tanti studiosi che hanno affrontato il tema mi sembra interessante richiamare il contributo radicale di Alfie Kohn che ha smontato il mito della competizione dimostrando con ricerche scientifiche come la continua contrapposizione tra esseri umani porti al risultato di un aumento di solitudine e infelicità. La lotta quotidiana in famiglia, a scuola, nel gioco e nel lavoro finisce per produrre schiere di perdenti, persone che si sentono inadeguate e che non hanno autostima.

Così ancora, di segno forte, il contributo di pensatori del calibro di Claudio Naranjo che ha individuato nel patriarcato una forma di organizzazione sociale gerarchica, fondata sul potere maschile, responsabile dei principali problemi dell’umanità. Storicamente il sistema patriarcale si è imposto sulle culture matristiche fondate sui valori della comunità, collaborazione e solidarietà esaltando e alimentando caratteristiche maschili quali la competitività, l’aggressione e il predominio dell’intelletto sulla affettività solidale.

 

Competere collaborando, un paradosso oppure una via?

Abbiamo utilizzato norme e regole per metterci al sicuro. Ma non c’è sicurezza nella separazione. Ci sentiamo bene solo quando ci ricordiamo che apparteniamo gli uni agli altri

M. Wheatley & M. Kellner-Rogers

 

Provo a sostenere un apparente azzardo.

Uno dei miei riferimenti di questi anni, che trasmetto con entusiasmo ai miei allievi, è il pensiero del sociologo statunitense Richard Sennet , il testo che consiglio è  intitolato “Insieme”.

Il titolo è quanto mai esplicativo. Sennet ritiene che la collaborazione, come un’arte o un mestiere, richieda alle persone l’abilità di comprendere e di rispondere emotivamente agli altri allo scopo di agire insieme.

Nella didattica del nostro Master di trentennale esperienza[4], applichiamo in ogni attività una competizione collaborativa che comporta un costante confronto tra gli allievi e i team. Essa ha come obiettivo proprio il progredire “insieme”, la crescita del singolo nella squadra e del gruppo come entità.

Non è un paradosso, lo abbiamo constatato.

La tensione positiva, l’eustress che sviluppa la competizione, se non è esasperata ed eccessiva , diviene energia costruttiva e produttiva.

In sostanza, la collaborazione è quella che Saint Exupery definirebbe la raffinata arte delle relazioni umane, una competenza sociale che si articola in capacità di comunicazione, negoziazione ed empatia, in altri termini nelle c.d Soft Skills.

Si è inoltre constatato che il modello collaborativo che non si fonda su una competizione sfrenata ma bensì su un percorso incentrato sulla cooperazione e lo scambio di conoscenza, comunicazioni, informazioni e best practices, tradotto sul piano squisitamente imprenditoriale, ha un impatto positivo sia in termini economici che finanziari.

La visione collaborativa è  certamente la prospettiva per il futuro delle aziende.

Da situazioni minute di vita quotidiana a realtà lavorative più o meno complesse, la collaborazione  rappresenta un’abilità essenziale da acquisire e coltivare.

In realtà l’ attitudine alla collaborazione è impressa nei nostri geni ma non deve limitarsi alla replica di comportamenti in maniera meccanica, occorre svilupparla, approfondirla e soprattutto praticarla.[5]

Come già affermato, la nostra cultura non ha dato grande rilevanza alla collaborazione privilegiando il modello della competizione individualistica che si è rivelata, nel lungo periodo, un boomerang specie con l’implemento massiccio delle  tecnologie digitali in ambito lavorativo[6]

 La pandemia di questi ultimi due anni ha fatto il resto.

 Le aziende in primis, ma anche la Pubblica Amministrazione, sono sempre più orientate ad adottare dinamiche di team working ,valorizzando la collaborazione tra persone che provengono da aree aziendali differenti e culture diverse.

Il trend organizzativo si dirige sempre più su strutture meno rigide e gerarchiche e maggiormente su organizzazioni interne per team  focalizzati su obiettivi mirati.

Allora è evidente che la capacità di lavorare in gruppo (che implica tutto il ventaglio delle Soft Skills) è un cardine del successo lavorativo.

A tal proposito si possono indicare alcuni tra i comportamenti chiave che favoriscono l’acquisizione della capacità di fare squadra .

  1. partecipare alle attività con mente gentile, dialogante,aperta, volta al confronto, a valorizzare i contributi degli altri
  2. coltivare un atteggiamento e un linguaggio positivo e costruttivo
  3. promuovere il dialogo, l’ascolto e il pensiero critico
  4. collaborare attivamente e raggiungere l’obiettivo
 

Oggi la competenza della collaborazione moltiplica la sua importanza in quanto sempre più digitale e dunque necessita di essere coltivata con una formazione mirata.

Nel progetto formativo realizzato dalla Associazione che dirigo, abbiamo promosso l’interessante metodica del Digital Team Working[7] in tutti i moduli formativi del nostro Master ottenendo entusiasmati risultati sul piano dell’acquisizione di competenze strategiche per il lavoro in team da remoto  prime tra tutte proprio la collaborazione digitale e la Virtual Communication.

 

Per concludere

Un proverbio yiddish dice che il peggior nemico lo abbiamo dentro di noi, la competizione violenta inizia a partire da noi stessi per successivamente irradiarsi verso gli altri rendendo le nostre vite più simili a battaglie infinite che vite di senso.

Conviene quindi ai singoli e alle organizzazioni, ripensare questo concetto, metabolizzarlo bene e discernere il nucleo positivo da tutti quegli aspetti tossici che abbiamo indicato.

Largo dunque ad una competizione sana, basata su conoscenza e competenze, definita con regole chiare e trasparenti, una competizione da cui tutti gli attori traggano insegnamenti, che formi per collaborare meglio in gruppi ma che sviluppi anche la possibilità di sinergie future tra persone e team laddove, mutate le condizioni, se ne profili l’opportunità perché il successo, come afferma Sinek, richiede sempre l’aiuto degli altri.

Che fare? Volgere lo sguardo a trecentosessanta gradi, esercitare il pensiero laterale e gettare via il paraocchi che mi fa vedere soltanto dritto di fronte a me e niente altro, rendendomi più simile ad un automa che ad un essere umano. Le possibilità di crescita e miglioramento appaiono così infinite.

 

Bibliografia per approfondire

Laurent,Storia dell’individualismo, Il Mulino, Bologna, 1994

Sennet,Insieme.Rituali,piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli,Milano 2012

S.Sinek, Insieme è meglio, Vallardi Editore, Milano, 2020

S.Casella , Vincere la paura in azienda, Tecniche nuove,Milano, 2019

M.Agujari, D.Pardini, La Formazione CIBA.Un metodo nato dall’esperienza, Campano Editore, Pisa, 2018

Pardini, Manuale breve di Sviluppo Personale ed Empowerment, Campano Editore, Pisa, 2018

S.Gianfaldoni, M.Giannini, SoftSkills:principi applicati e casi aziendali,Tipografia Editrice Pisana,Pisa, 2020

S.Gianfaldoni, M.Giannini,Teamwork e gioco di squadra nelle aziende e nelle organizzazioni, Tipografia Editrice Pisana,Pisa, 2018

F.Laloux, Reinventare le organizzazioni, Guerrini Next,Milano, 2020

C.Naranjo,L’ego patriarcale. Trasformare l’educazione per rinascere dalla crisi costruendo una società sana, URRA,Milano , 2009

C. Naranjo, La rivoluzione che stavamo aspettando,TerraNuova Edizioni,Firenze, 2014

 

Note

[1] Cfr Alain Laurent, Storia dell’individualismo, Universale Paperbacks Il Mulino,Bologna,1994, p.24 e seguenti

[2] per un approfondimento si legga il mio Manuale breve di sviluppo personale ed Empowerment, Campano Editore, Pisa, 2018

[3] L’Associazione Eraclito 2000, propone dal 1992 ,esperienze di formazione avanzata seguendo il c.d. Metodo CIBA volto a sostenere la leadership delle nuove generazioni in un mondo in continua evoluzione www.eraclito2000.it

[4] Master in CIBA Comunicazione,Impresa, Banche e Assicurazioni, giunto alla XXIX Edizione.

[5] Rilevante in tal senso la ricerca sulla base neurobiologica della collaborazione, si legga l’articolo sul Corriere della sera, Nel lavoro di gruppo il nostro cervello si sincronizza con quello degli altri, di Danilo Di Diodaro, 28.8.2015.

[6] Così Guido Romeo su Nova de Il Sole 24 ore : ” Oggi molti lavoratori si sentono ancora in una fase di transizione rispetto a queste tecnologie altamente collaborative e dinamiche. La diffusione dei social network e delle connessioni mobili è solo la spia più evidente di questo cambiamento generazionale. La generazione più giovane di utenti aziendali, è infatti composta da “nativi digitali” persone cresciute e formatesi utilizzando il web con grande familiarità con gli strumenti di social networking che consentono alle persone di incontrarsi e connettersi. Diverse indagini indicano che questi nuovi lavoratori tecnologicamente evoluti sul posto di lavoro si aspettano una serie di strumenti di comunicazione e di collaborazione equivalenti a quelli di social networking, ai motori di ricerca, alla funzionalità di instant messaging che già utilizzano a casa. Il lavoro collaborativo diventa così più pervasivo, integrato e dinamico. In una parola più intelligente.”

[7]  Digital Team Working è una capacità che si sviluppa in un team che lavora da remoto utilizzando gli opportuni strumenti digitali che favoriscono e rendono agevole la collaborazione digitale per raggiungere gli obiettivi prefissati

Diana Pardini

Direttrice del Master in Ciba e dei progetti culturali di Eraclito 2000, Esperta Scientifica del CAFRE UNIPI , consigliera di PPOO del Consiglio Cittadino del Comune di Pisa e presidente della Commissione Lavoro, si occupa di formazione avanzata da trenta anni. Dirige la Collana Cultura e Formazione della Campano Editore. La ricerca e lo studio sono la cifra distintiva del suo operato.