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Riflessioni sul Diversity Management

Origini storiche di un concetto

Per molto tempo, all’ interno del modello produttivo taylorista, prevalente nel mondo occidentale,
ad ogni lavoratore é stata attribuita l’importanza di uno strumento da lavoro, ritenendo che l’efficienza produttiva dovesse essere improntata ad una rigida ripartizione del lavoro secondo l’equazione presenza = produzione.

Verso gli Anni ’50, per le conseguenze postbelliche e l’inizio del boom economico, si inizia a spostare l’attenzione sulla composizione dei gruppi che producono lavoro, con un’indagine che a quel punto iniziava a mostrare segni di attenzione all’umano. Si osserva che i gruppi sono tendenzialmente eterogenei e perciò, tramite il confronto rispetto alla norma, si inizia ad affacciare la consapevolezza della diversità dei lavoratori.

In un arco di tempo successivo, che comprende le spinte filosofiche e di pensiero derivanti dai rivolgimenti della fine degli anni ’60 per arrivare alle soglie del secondo millennio, inizia ad emergere il tema delle pari opportunità: si osservano per la prima volta con maggior coscienza critica quelle che sono le differenze tra lavoratori (specialmente tra un lavoratore uomo ed una lavoratrice donna) e si iniziano a spingere le istituzioni nella direzione di una realizzazione di leggi che mirino al superamento delle discriminazioni.

 

Il modello americano

Negli USA nascono i primi provvedimenti di tutela delle minoranze nei luoghi di lavoro. Vengono approvate le leggi sull’ Equal Employement Opportunity, che sanciscono illegali le discriminazioni sui luoghi di lavoro. L’attenzione si fa più massiccia nei confronti delle donne e dei portatori di handicap.

Il modello delle pari opportunità, in questa nuova sensibilità sociale, impone una chiave interpretativa basata sul concetto di uguaglianza, secondo cui gli individui debbono essere trattati allo stesso modo, accedendo con i medesimi strumenti alle stesse identiche opportunità. Sul piano giuridico, ciò porta alla convinzione che un livellamento dei diritti corrisponda, in realtà, ad una più ampia visione del riconoscimento dei diritti individuali.

Solo in tempi più recenti, la riflessione si sposta dal concetto di uguaglianza al concetto di equità: la rappresentazione latina dell’ alter cede pian piano il passo alla simbologia più profonda dell’ unus, inteso come individuo unico ed irripetibile e non semplicemente come altro da sé.

Cambia il concetto stesso di organizzazione e ciò è riconducibile al mutato scenario economico dell’Occidente produttivo. Le imprese si trovano adesso ad operare in un mercato sempre più diversificato e globalizzato. “Nei paesi sviluppati , scrivono Chemers, Oskamp e Costanzo nella seconda metà degli anni ’90, il passaggio da una economia di produzione ad una di servizio ed informazione richiederà che le forze di vendita siano tanto diverse quanto la popolazione dei clienti”.

La divisione del mercato del lavoro è sempre più articolata ma cambia anche la percezione dell’utenza del prodotto. Mentre in precedenza si faceva maggior riferimento alle economie di scala e di massa, adesso il target si assottiglia e si determina maggiormente in base a criteri sempre più definibili, indagando i gusti personali dei clienti. Basti pensare alle politiche di marketing sempre più attente ai bisogni delle varie fasce dei consumatori ed indirizzate secondo precisi criteri di identificazione. Le cosiddette strategie one-to-one permettono varianti individuali e di progettualità accolte e richieste dai consumatori stessi (un esempio per tutti è la customerizzazione attuata in tempi recenti da Coca Cola mediante la produzione di lattine personalizzate).

Il processo appena descritto si inserisce in una realtà che investe non più solo il mondo occidentale tradizionale ma arriva a coinvolgere nuovi protagonisti della produzione mondiale, come i Paesi asiatici e parte degli ex Paesi comunisti.

Emerge l’idea di cross culture che, come spiega Ambrosini (2001) “si sta ora affacciando anche in aziende completamente situate in Italia in virtù dei fenomeni migratori e della scarsità di manodopera locale per alcune posizioni professionali. Questo comporta che sempre più spesso è possibile trovare nei reparti produttivi, nei cantieri edili, nell’assistenza ai bambini e agli anziani, ma progressivamente anche negli uffici e nei laboratori, persone di nazionalità molto differenti che lavorano gomito a gomito”.

In un clima di ben salda tradizione di meltin’ pot , quale quello presente negli Stati Uniti, inizia ad affiorare una sensibilità nuova verso quelle minoranze inserite comunque attivamente nel processo produttivo. Le multinazionali americane iniziano ad individuare, all’interno dei loro organigrammi aziendali, i gruppi formati da diversità, identificati mediante il processo di esclusione dalle opportunità offerte a tutti indistintamente. Si tratta prevalentemente di donne, neri, ispanici, GLBT (gay, lesbiche, bisessuali e transessuali), mature people e disabili.

Gli studiosi concordano nell’affermare che sia da collocare, in questo panorama variegato e demograficamente diversificato, la nascita del Diversity Management.

 

Per una definizione di Diversity management

Il Diversity Management deve essere inteso come l’approccio strategico tendente a valorizzare le diversità ed il loro differente apporto alla cultura aziendale. Seguendo la definizione data da Barabino, Jacobs e Maggio (2001), e riportata da Tornillo, esso viene definito come “l’approccio diversificato alla gestione delle risorse umane, finalizzato alla creazione di un ambiente di lavoro inclusivo, in grado di favorire l’espressione del potenziale individuale e di utilizzarlo come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi”.

Questa nuova visione della gestione del capitale umano sembra comparire per la prima volta nel 1987, quando lo Hudson Institute pubblicò la relazione Workforce 2000. In essa venivano analizzati i trend della futura composizione della forza lavoro americana. I dati emersi rivelarono una sempre maggior affluenza del multiculturalismo e della progressiva presenza femminile. Le politiche allora presenti di gestione del capitale umano avevano puntato, come abbiamo visto, per decenni, al livellamento dei diritti individuali garantendo un pari accesso alle opportunità interne ed esterne all’organizzazione produttiva. Adesso, sotto la luce dei nuovi profili che andava assumendo la società americana, queste politiche iniziarono a mostrare il loro grado di inefficacia. Si andava invece delineando, per le imprese, la sempre crescente necessità di un approccio di gestione basato non più sulla standardizzazione bensì sulla valorizzazione delle differenze.

Laddove il singolo si senta compreso e rispettato nella sua diversità e nelle sue esigenze (che variano da persona a persona, ed, all’interno di uno stesso percorso di vita, si modificano anche in rapporto alle diverse fasi dell’esistenza), sarà portato a rendere maggiormente in termini qualitativi, migliorando il rapporto con i colleghi ed i superiori e partecipando, così, con maggior enfasi al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Valorizzando le diversità, perciò, si contribuisce ad amplificare la cultura aziendale e la possibilità di accoglienza di questo nuovo strumento.

Maria Cristina Bombelli, che si è occupata in Italia delle politiche di sviluppo e valorizzazione delle diversità, sgombra però subito il campo da ogni dubbio circa la transitorietà di questo tipo di approccio: si deve parlare, perciò, non di “moda” (né, tantomeno, di soluzioni facili ed omologate per ogni organigramma aziendale) ma di una sempre crescente necessità nella gestione delle risorse umane di un contesto lavorativo. L’analisi oggettiva e perforante i diversi livelli di comunicazione e strutturazione aziendale diventa, in questo senso, il pilastro per una politica accorta ed efficace di diversity management. Si devono trovare, assieme ai vertici, le linee di percorso più adatte non solo per la valorizzazione dei singoli apporti ma anche, in un’ottica di gratificazione e successo aziendale, per quelle organizzazioni che hanno deciso di aprirsi a questo tipo di strumento.

Il modello americano, pur mantenendo genuine le proprie finalità (soprattutto nella parte riservata al perseguimento dei fini aziendali di profitto mediante la valorizzazione del singolo), ha comunque presentato dei limiti e delle contraddizioni interne, creando infatti il rischio tangibile di stigmatizzare chi invece si voleva proteggere e ponendo una classificazione non sempre gradita agli appartenenti ai gruppi minoritari. Esiste allora la possibilità di un conflitto tra ciò che risulta apparente e ciò che, invece, appartiene alla sensibilità oppure alle scelte del singolo.

Il concetto di uguaglianza deve essere quindi reinterpretato secondo il buon senso. Appare infatti evidente come, rimarcare l’appartenenza ad un gruppo identificato come diverso, rischia di apparire un tentativo grossolano di includere chi, di fatto, diverso non si sente. La piattaforma interpretativa offerta dall’equità diviene allora strumento imprescindibile per una buona politica di diversity. Ci si sposta su un piano interamente valoriale: la gestione efficace della diversità all’interno delle organizzazioni presuppone una consapevolezza delle differenze interne ma anche un simultaneo riconoscimento del valore delle stesse.

Il rischio di conflitto tra il concetto di uguaglianza e quello di equità ( e perciò il conseguente ed auspicabile spostamento degli strumenti di azione su un piano di interventi che tendano a valorizzare le differenze) può trovare una via di conciliazione nel concetto di identità.

Ed è in questa visione che trova accoglimento il già citato concetto latino di unus.

 

Per una applicazione del Diversity management

Riconoscere la diversità come valore e abilità da gestire e sfruttare è alla base di una corretta applicazione del principio di identità personale e, conseguentemente, di tutte le politiche di Diversity Management.

Smith sottolinea come sia importante “riconoscere l’effettiva gestione di ciascun dipendente in accordo con l’unicità specifica del suo contributo, del suo background e delle sue aspettative, aiutando i gruppi di dipendenti a lavorare insieme in modo più efficace e profittevole. (…) Il problema quindi non è se la diversità è buona in se stessa ma nel come viene gestita”.

Il concetto di diversità assume perciò vari aspetti, dipendenti soprattutto dal contesto culturale in cui ci si trovi ad operare. Le varie interpretazioni di diversità poste dagli studiosi insistono, in primo luogo, su una differenziazione tra le dimensioni di tipo primario e secondario (Loden e Rosener).

Appaiono come diversità primarie quelle riconducibili al patrimonio innato dell’individuo: età, genere, origine etnica, razza, orientamento sessuale, capacità mentali e fisiche. Appartenenti al gruppo delle diversità secondarie, invece, tutte quelle capacità acquisite durante il percorso di vita: educazione, situazione familiare, reddito, religione, esperienza organizzativa e stile di lavoro.

Nell’ottica della valorizzazione delle differenze per un maggior contributo degli individui alla vita aziendale, con vantaggi per l’azienda in termini economici e sociali (e di reputazione), assume importanza un ulteriore elemento: quello del bisogno di autorealizzazione degli individui.

Bombelli identifica il processo di rafforzamento di questa esigenza individuale nel cambiamento dell’offerta lavorativa, da un lato, e nell’aumento della scolarizzazione e delle esperienze, dall’altro. Mentre in passato la rigida schematizzazione del lavoro portava ad inserirsi (anche abbastanza presto) in lavori ripetitivi ed orientati all’ottenimento dello stipendio, oggi, con il benessere collettivo, sono aumentate le capacità di scelta e di costruzione di percorsi individuali. Si passa dalla fabbrica alla circolazione di conoscenza, con il conseguente abbattimento del modello fordista e la ricerca di nuovi spazi di espressione.

I bisogni dei singoli appaiono ora ben mutati rispetto ai valori proposti dalla piramide di Maslow. L’elaborazione dello psicologo statunitense, risalente al ’54, delineava una gerarchia di richieste in cui la base era costituita dai bisogni fisiologici e di sopravvivenza, mentre collocava soltanto al vertice il bisogno di autorealizzazione. Oggi la situazione appare radicalmente cambiata. Gli individui percepiscono il bisogno della realizzazione di sé come fondamentale ed, in moltissimi casi, propedeutico ad altri bisogni. Almeno nei settori della popolazione più specializzati ed istruiti, l’idea del lavoro finalizzata al percepimento di uno stipendio viene destrutturata, in favore dell’aspetto più simbolico dell’attività stessa, come status sociale di legittimazione e relativo all’identità personale.

Il risvolto negativo degli ultimi tempi che ci troviamo a vivere riguarda, purtroppo, l’instaurarsi di contratti sempre più inaffidabili (laddove la flessibilità dovrebbe invece apparire come un valore) ed instabili. Nella ricerca di autorealizzazione lavorativa, un ostacolo da rimuovere è insito nel rischio di un mancato senso di appartenenza ad un’azienda, dato dalla situazione del “contratto flessibile” (la flessibilità è invece solo burocratica e non investe le esigenze del singolo) e dal fatto che molto spesso ci si trovi ad operare “a tempo” assieme ad altre persone che hanno, invece, contratti più datati di reale dipendenza. Anche in questo nuovo panorama di possibilità, e per salvaguardare il bisogno di realizzazione dell’identità attraverso l’esperienza lavorativa, è sempre più necessario mettere in atto delle strategie di diversity management, atte a conciliare le esigenze del singolo con la cultura aziendale e favorire il lavoro di squadra. Diventa allora sempre più urgente definire nuove aree di competenza organizzativa e sviluppare le specificità individuali.

Dall’altro lato dello scenario economico abbiamo gli altri protagonisti portatori di istanze egualmente importanti per lo sviluppo economico, ovvero le aziende.

Appare ovvio che l’obiettivo primario dell’organizzazione è il raggiungimento di profitto, tramite il conseguimento del vantaggio competitivo. Uno degli elementi fondamentali per raggiungere e consolidare il vantaggio competitivo è rappresentato dalla gestione ottimale e proficua delle conoscenze dei lavoratori (i c.d. skills). Le variabili che si intersecano nel panorama eterogeneo del capitale umano dell’impresa, e possibile bacino di utilizzo per il profitto aziendale, possono essere gestite dagli strumenti di diversity management. Esso, come chiarisce Tornillo, “rappresenta quindi una innovativa strategia d’impresa che, grazie alla valorizzazione delle potenzialità, delle conoscenze e abilità di ogni dipendente, mira a raggiungere gli obiettivi aziendali”.

Gestire efficacemente la diversità, infatti, si traduce in una fidelizzazione del personale e in una conseguente adesione e condivisione dei valori aziendali. L’azienda può così ottenere un potenziamento della sua efficacia interna ed esterna.

Va sottolineato anche come un altro vantaggio di questo tipo di approccio alla forza lavoro, determini una maggiore corrispondenza ed identificazione delle diversità dei consumatori. L’analisi del panorama socio-economico che abbiamo fatto all’inizio, ci porta ancora una volta ad affermare che, molteplici ed eterogenei apporti alla direzione aziendale, possono meglio cogliere tutte le variabili di consumo oggi massicciamente presenti sul mercato.

Quello che appare come una possibile criticità è invece rappresentato dall’atteggiamento per cui l’incontro con la diversità suscita sempre diffidenze e paura del cambiamento. Nella cultura organizzativa di un’azienda, strutturata a volte secondo schemi tradizionali, altre volte costruita seguendo più moderni modelli di impresa, appare spesso difficile introdurre il concetto di diversity management, per il rischio che i dipendenti percepiscano una diminuzione dell’uniformità fino ad allora vissuta.

Ecco perché è estremamente necessario che le politiche di diversity management siano sempre accompagnate dalle azioni di vertice, che mirino ad accompagnare tali modelli on la rassicurazione che esse investiranno, e porteranno benefici, a tutti i componenti, e non ad una ristretta minoranza. L’idea di condivisione e riorganizzazione secondo criteri più collettivistici deve permeare profondamente le azioni perpetrate dal vertice, con la convinzione che, costituendo oggi una scelta sempre più obbligata per molte organizzazioni, il diversity management aprirà le possibilità di dialogo dell’azienda verso i mutati scenari economici del nostro tempo.

E’ auspicabile che, all’interno di queste politiche, trovi sempre maggiore e definitivo accoglimento la valorizzazione del mondo femminile riconoscendo, nella partecipazione delle donne al mondo produttivo, un segno inequivocabile di evoluzione sociale e risorsa imprescindibile di sviluppo economico.

 

Bibliografia

Chemers, Oskamp e Costanzo Triandis H.C. “A theoretical framework for the Study of Diversity” in Chemers M., Oskamp S., Costanzo M.A., Diversity in Organization Sage, London, 1995

Ambrosini Ambrosini M., La fatica di integrarsi, Il Mulino, Bologna, 2001

Barabino, Jacobs e Maggio (2001) Barabino M.C., Jacobs B., Maggio M.A., Diversity Management in Sviluppo & Organizzazione, n. 184 marzo, aprile 2001Global Diversity Management , Özbilgin, M. F., & Tatli,
A. (2007). Global diversity management . Basingstoke, UK: Palgrave.

Loden e Rosener Loden M., Rosener J.B., Workforce America! Managing Employee Diversity as a Vital Resource, Homehood, NY, 1991

 

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Cecilia Taddei

Laureata in Scienze Politiche all'Università di Pisa, é Formatrice e Consulente. Ex-allieva del Master CIBA Ed. XIII, Responsabile delle Relazioni Esterne per l' Associazione CO.RI - Comunicazione e Ricerche incentrata sul dialogo di genere, collabora con Eraclito 2000 svolgendo docenze e progetti. Nel tempo libero si dedica alla famiglia, alle amicizie, alle passeggiate nella natura e ad approfondire i temi riguardanti le questioni di genere e di psicologia delle organizzazioni.