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Le innovazioni nel lavoro

Introduzione

Cercando di sviluppare un ragionamento intorno alle “nuove tipologie di lavoro“ che, ci auguriamo,  caratterizzeranno l’occupazione dei nostri figli, e così della nuova classe lavoratrice, ritengo opportuno focalizzare l’attenzione su due documenti, a mio avviso essenziali, per dare un significato, soprattutto oggettivo, al ragionamento che qui  mi accingo a esaminare, sia pur in breve sintesi.

Il primo documento riguarda una accurata classificazione, fatta a livello europeo, sulle nuove forme di lavoro create nel corso dell’ultimo decennio, il secondo si proietta nel futuro e disegna lo scenario occupazionale, non felice, che sembra attendere i lavoratori nei prossimi anni.

News forms of employment questo il titolo della copiosa ricerca,   pubblicata nel marzo 2015 a  Dublino da Eurofound [1]

Dallo studio emerge che a seguito dei più recenti sviluppi sociali ed economici, quali ad esempio l’esigenza di una maggiore flessibilità richiesta in particolare dalla parte datoriale, in tutta Europa sono emerse nuove forme di occupazione che hanno trasformato, radicalmente, il tradizionale rapporto tra datore di lavoro e dipendente.

Esistono poche informazioni su queste “nuove forme di occupazione”, sulle loro caratteristiche specifiche e sulle ripercussioni che hanno sulle condizioni di lavoro e sul mercato del lavoro.

Proprio per colmare tale carenza di conoscenze, Eurofound ha realizzato un esercizio di mappatura a livello europeo volto a individuare le tendenze emergenti, in seguito al quale sono stati classificati nove ampi tipi di nuove forme di occupazione.

 

I 9 nuovi tipi di lavoro

Nove. Tanti appunto sono secondo Eurofound i nuovi tipi di lavoro che si sono sviluppati in Europa negli ultimi 15 anni. Il rapporto analizza nel dettaglio ognuno di essi, ne presenta vantaggi e difetti, e lo fa al fine di sollecitare una discussione su costi, benefici, sulla cosiddetta flexicurity e su come bilanciare le richieste del mercato del lavoro e quelle di protezione sociale e sicurezza.

Qui di seguito riporto l’elenco delle   categorie analizzate, tutte molto complesse dal punto di vista di giuridico sia per la loro intrinseca atipicità contrattuale che per la talvolta incerta collocazione nel settore, ora del lavoro autonomo, ora del lavoro dipendente.

A margine fornisco la traduzione estesa in lingua italiana per renderne più chiaro e fruibile il significato, non solo agli addetti ai lavori.

  • employee sharing – codatorialità, in cui un singolo lavoratore è assunto congiuntamente da un gruppo di datori di lavoro per soddisfare le esigenze di risorse umane di più imprese; questa forma si traduce in un’occupazione permanente a tempo pieno per il lavoratore;
  • job sharing – lavoro ripartito, in cui un datore di lavoro assume due o più lavoratori affinché occupino congiuntamente una posizione specifica, combinando due o più lavori a tempo parziale per garantire la prestazione lavorativa a tempo pieno;
  • interim management – gestione temporanea, in cui esperti altamente qualificati sono assunti a tempo determinato per un progetto specifico o per risolvere un determinato problema, integrando in tal modo le capacità esterne di gestione nell’organizzazione del lavoro;
  • casual work ; lavoro occasionale, in cui un datore di lavoro non è obbligato a fornire regolarmente lavoro al lavoratore, ma ha la flessibilità di avvalersi delle sue prestazioni all’occorrenza;
  • ICT-based mobile work – telelavoro mobile, svolto tramite dispositivi TIC, in cui i lavoratori possono svolgere il loro lavoro da qualunque posto in qualsiasi momento, grazie alle moderne tecnologie;
  • voucher-based work- lavoro retribuito tramite buoni in cui il rapporto di lavoro si basa sul pagamento dei servizi attraverso un voucher acquistato da un ente autorizzato che copre sia la retribuzione che i contributi della previdenza sociale;
  • portfolio work (lavoratore autonomo per gran numero di clienti); lavoro su portafoglio, in cui un lavoratore autonomo lavora per un ampio numero di clienti, svolgendo lavori su piccola scala per ciascuno di essi;
  • crowd employment (nuvola virtuale di datori e lavoratori su ampi progetti);
  • collaborative employment (lavoro a collaborazione, autonomi, microimprese).

 

Non è questa la sede per disquisire, in particolare a livello giuridico, sulle singole figure “contrattuali“ sopra richiamate eppur appare necessario avviare una riflessione affinché si possa scongiurare, ab origine, il pericolo che il lavoro convenzionale sia sostituito da forme di occupazione meno favorevoli per i lavoratori e quindi garantire una solida protezione sociale, tutela dei diritti e buone condizioni di lavoro.

L’impegno trova radice e giustificazione anche alla luce di quanto tra poco si dirà in merito al secondo studio, dal titolo The Future of Jobs, pubblicato dal World Economic Forum in occasione degli incontri tenuti a Davos, in Svizzera, dal 20 al 24 gennaio u.s., sul tema  “Mastering the Fourth Industrial Revolution”.

Come emerge da tale rapporto stiamo vivendo la quarta rivoluzione industriale, [2] che comprende una serie di evoluzioni e sviluppi in settori quali l’intelligenza artificiale e il machine-learning, la robotica, le nanotecnologie, la stampa 3D, la genetica e le biotecnologie.

E’ opinione comune  che, come le precedenti, questa rivoluzione sia destinata a cambiare per sempre la società e l’economia mondiale con novità che avranno ripercussioni positive, ma anche negative, sulla vita dei cittadini e così dei lavoratori nel mondo intero.

La ricerca presentata al World Economic Forum illustra l’evoluzione del lavoro fino al 2020 sulla base delle indicazioni raccolte tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali (tra cui 150 sono incluse tra le 500 di Fortune). Complessivamente queste imprese rappresentano circa 13 milioni di dipendenti. L’analisi si riferisce a 15 tra i maggiori Paesi nel mondo (tra cui Cina, India, Francia, Germania, Italia, Giappone, Uk e Usa).

Vengono fornite informazioni dettagliate su nove settori: Industria e costruzioni, Commercio, Energia, Servizi finanziari, Sanità, ICT, Media & Intrattenimento, Logistica, Servizi professionali.

Nei prossimi 5 anni fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro.

Alcuni (come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro) stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni.

L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo – quindi – di oltre 5 milioni di posti di lavoro.

L’Italia ne esce con un pareggio (200mila posti creati e altrettanti persi), meglio quindi di altri paesi europei ed occidentali come Francia e Germania.

A livello di gruppi professionali le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente queste perdite l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria.

Dopo aver letto tali dati è giusto concludere, come hanno titolato molti giornali, che la quarta rivoluzione industriale causerà, entro il 2020 (quindi tra soli quattro anni) la riduzione di cinque milioni di posti di lavoro nel mondo, rimpiazzati da robot e intelligenza artificiale?

Non credo che tale conclusione sia propriamente corretta.

Lo studio è stato infatti introdotto da un lancio ufficiale che dice espressamente così:

“The Fourth Industrial Revolution, combined with other socio-economic and demographic changes, will transform labour markets in the next five years, leading to a net loss of over 5 million jobs in 15 major developed and emerging economies” (fonte Weforum.org)

Dunque lo studio non mette in diretta correlazione machine learning e robotica – con la perdita dei posti di lavoro.

Non si parla di posti persi per colpa della tecnologia – una semplificazione affascinante, comoda, usata da chi, come il presidente dell’Antitrust, ha sostenuto in una intervista al Corriere che Internet ha distrutto occupazione.

Si parla invece di come le trasformazioni portate anche dalla tecnologia incideranno sul mercato del lavoro portando alla perdita di complessivi 5 milioni di posti.

L’equazione robot=ladri non esiste, come scrive opportunamente la giornalista Barbara D’Amico.

 

Skills e Formazione

Lo studio, se attentamente analizzato, invita a riflettere sul significato, anzi sul nuovo significato, da attribuire a due parole chiave: skills e formazione.

La ricerca The future of Jobs, ci dice che “In media, nel 2020, più di un terzo dei principali gruppi di abilità (skills) impiegate nelle attuali occupazioni sarà fatto di competenze che non sono ancora considerate cruciali nei lavori di oggi” (Future Jobs, pagina 20).

E dunque se è corretto affermare che l’informatizzazione influisce fortemente nei processi di organizzazione del lavoro generando la necessità di profondi cambiamenti nella forza lavoro esistente, sostenere, vale ripeterlo, la validità di frasi quali “Internet distrugge posti di lavoro”, (spesso anche per giustificare situazioni di esubero occupazionale) non è corretto.

Le industrie tecnologiche ne creano di posti, quella che semmai viene distrutta è la stabilità delle competenze, non il posto di lavoro.

E per misurare tale stabilità è stato creato un nuovo indice, lo skills stability,  che determina la tenuta delle competenze che rendono alcuni lavoratori indispensabili per alcuni mestieri .

Tanto più sarà alto tale indicatore, tanto più il mio lavoro potrà dirsi “al sicuro“, pur con una prospettiva temporale comunque delimitata all’ingresso sul mercato di un nuovo software che sarà  più bravo e veloce di noi nel coprire quelle abilità che caratterizzano alcuni settori. Di qui la necessità di rinnovare costantemente le competenze.

Sotto tale prospettiva, secondo la ricerca del WEF, a rischio sono soprattutto:

  • le professioni del settore amministrativo (tutte le attività burocratiche, di segreteria per intenderci)
  • le competenze di operai e artigiani per il settore edile e manifatturiero
  • le competenze di chi oggi lavora nel settore bancario, finanziario
  • le professioni sanitarie (specie di management)
  • le professioni ingegneristiche (ebbene sì, non sono al sicuro)

 

Attenzione però, questi lavori non sono superati: semplicemente appartengono a settori oggi in fase di profonda trasformazione in cui ad esempio i BIG DATA assumono un ruolo sempre più centrale e quindi è più facile che un manager ospedaliero venga rimpiazzato non da un software, ma da un manager ospedaliero che sappia anche come funziona la data analysis.

Bisogna quindi studiare e acquisire competenze-nuove, non solo per gestire i software che ci sostituiscono, ma anche per guidare processi ancora non gestiti dalle macchine.

Se questo è vero, occorre comunque procedere con cautela;

come sostiene anche  Andrew McAfee nel suo testo “ La nuova rivoluzione delle macchine “, ridurre tutto a una questione di skills, ci porterebbe a grossi errori di valutazione sul nostro futuro, sul modo in cui oggi scegliamo di fare quello che facciamo.

Vi sono infatti alcuni mestieri caratterizzati da specifiche competenze che potremo definire infungibili: la componente psicologica, l’empatia, il pensiero critico, la creatività, la relazione, non potranno mai essere rimpiazzate da un computer o da un semplice algoritmo.

Su tale punto concordano anche coloro che teorizzano su un futuro iper tecnologizzato.

E dunque seguendo questa traccia potremmo essere portati a pensare che  solo i maestri elementari, e la classe docente tutta, gli psicologi o gli artisti potranno salvarsi prima di altri da questa temibile quarta rivoluzione industriale.

Ma sì facendo escluderemmo, a contrariis, la necessità di pensare che l’intelligenza emotiva, così come definita da Goleman, non sia necessaria in tutte le  professionalità.

E questo sarebbe erratissimo.

Come non ritenere opportuno, ad esempio, che anche un manager bancario o assicurativo o di altro settore, in ipotesi  impegnato in una attività di pianificazione e controllo, non debba ri-qualificare, ri-valutare, rin-novare, la sua capacità empatica e di ascolto, la comunicazione profonda, la capacità relazionale.Pur essendo il suo lavoro incentrato sulla gestione di dati, analisi di processi, operatività diretta su sistemi operativi dedicati?

 

Formazione

Come accennato poco fa la Formazione è un’altra parola chiave per non essere travolti negativamente dal cambiamento in corso nel mondo del lavoro.

È necessaria una transizione verso sistemi educativi che favoriscano la curiosità e la sperimentazione. Il focus dell’insegnamento dovrebbe spostarsi dall’imparare esclusivamente cose già conosciute, all’esplorare nuove opportunità, ampliare la visione delle situazioni, identificando e anticipando i drivers del cambiamento.

Inoltre, per favorire la competitività di chi è già inserito da tempo nel mercato del lavoro, occorre incentivare l’approccio del lifelong learning e la ri-qualificazione della forza lavoro esistente, attraverso attività di formazione mirate a rispondere alle esigenze crescenti del mercato del lavoro, al fine di favorire il più possibile l’incontro tra domanda e offerta.

Le aziende hanno il compito di investire in Formazione mutando però radicalmente l’utilizzo che ne hanno fatto sino ad oggi.

Formazione non come mero prodotto da “erogare“ ai dipendenti, ma strumento di crescita condivisa, unica vera  soluzione alle peggiori minacce, in primis quella occupazionale.

 

Il cambiamento costruttivo

Per concludere, alla luce di quanto detto sin ora, il primo invito che sento di fare a tutti coloro che desiderano davvero operare verso un cambiamento costruttivo per gli interessi dell’impresa e così del suo motore primo – il lavoratore –  è quello di riflettere su questa semplice affermazione:

“ C’è un filo conduttore, un pietra angolare sulla quale tradizione e futuro trovano un fondamento comune: è la centralità della persona. ….

Chi non crede che la Persona debba realmente porsi al centro di ogni processo di rinnovamento, significa che non possiede quelle Skills, quelle competenze, che abbiamo visto essere ESSENZIALI,  per il lavoro che verrà…, in un’ottica di vera crescita.

Dovrà dunque formarsi, come suggerisce il World Economic Found, e ri-qualificarsi accrescendo quelle che abbiamo definito le competenze infungibili, essenziali per non soccombere alla tecnologia.

Se così faremo, come è certo auspicabile, rectius necessario, molte cose cambieranno radicalmente .

Cambieranno, migliorando, le relazioni interne, la motivazione, lo spirito di appartenenza, come un unico cuore pulsante, reale valore di ogni organizzazione produttiva,

Cambieranno gli obbiettivi; la produttività sarà naturale conseguenza (e non premessa) del benessere lavorativo.

Cambieranno gli strumenti, per realizzare quella che potremo definire effettiva crescita, non più quindi solo crescita economica; la formazione, nella nuova accezione data poco fa, ne sarà il motore e le skills di ogni singola risorsa umana, anche senior, adeguatamente riconosciute, rivalutate e rinnovate, il nuovo carburante.

Cambieranno infine  i valori, dando concretezza a quello che oggi è solo contenuto come dichiarazione di principio nei bilanci sociali, nelle carte etiche, nelle dichiarazioni di intento .

Chiudo con le parole del filosofo prestato al mondo aziendale, Andrea Vitullo:

occorre essere pronti a  “ridefinire il lavoro e l’agire dell’uomo. Da funzioni e ruoli che per loro natura richiedono tempi immediati e reazioni rapide, a tempi della persona che difficilmente possono essere misurati con parametri definiti dalla tecnica. Autonomia, efficacia relazionale, riflessività, capacità di fare domande, conoscenza di sé, empatia, diventano di diritto criteri per sviluppare, valutare, promuovere o frenare i percorsi di carriera così riconoscendo l’indissolubile legame tra i percorsi di crescita professionale e quelli personali. Le due agende della  risorsa umana in azienda- quella professionale e quella personale – possono finalmente sovrapporsi, mescolarsi, influenzarsi a vicenda, o comunque danzare insieme, alla ricerca di un doppio profitto: quello economico e quello personale“.

Marco Agujari

Laurea in Giurisprudenza, Funzionario Assicurativo Area Legale, con esperienza pluriennale nella gestione e selezione delle Risorse Umane. Presidente e fondatore dell’Associazione Culturale Eraclito 2000 di Pisa. Membro in Commissione di ricerca finanziate dal CNR in tema di danno alla salute con studi in Francia e Norvegia. Già Professore a Contratto presso le Facoltà di Giurisprudenza ed Economia e Commercio di Pisa e docente in Master Universitari e corsi di Alta Formazione. Presidente e fondatore del Centro Studi Bancari G. Romano della Banca Popolare di Spoleto sino al 2013. Autore di numerose note a sentenza e pubblicazioni a carattere giuridico e socio economico.