Ri-conoscere le emozioni
Dott. Maria Chiara Belia
Ri-conoscere le emozioni Contattare ed accogliere le emozioni per entrare in comunicazione con l’altro
L’Autrice
Paola Bientinesi, laureata in Scienze politiche, ha conseguito la qualifica di Counselor al termine del corso triennale di “Counseling ad approccio integrato e promozione della salute”, tenuto dall’AIRP ed è iscritta nel Registro Italiano dei Counselor.
Introduzione
“Un’emozione è come uno strattone: qualcuno ti sollecita, ti tira per la manica. A volte è una scossa violenta, un colpo doloroso. Richiede di essere riconosciuta, esige di essere compresa. Le emozioni rappresentano indicatori preziosi dell’importanza di un dato elemento e costituiscono l’occasione per porsi un determinato problema: come tali sono tra gli aspetti più affascinanti della vita mentale, sia per noi stessi che per coloro che ci stanno a cuore” (Oatley 2004, p. 30).
Oatley sottolinea l’importanza di riconoscere e di comprendere le emozioni, in quanto occasione per porsi un determinato problema. In realtà, dalla società contemporanea giungono messaggi volti a contenere l’impatto delle emozioni, ritenute non funzionali al raggiungimento degli obiettivi lavorativi e più in generale all’interazione con altri esseri umani.
Le emozioni sembrano essere ingombranti; strattoni di cui faremmo volentieri a meno. Sebbene anche le altre specie animali si attivino con reazioni simili ai segnali emozionali, nell’uomo l’emozione si differenzia per il nesso causale: oggettivo per le altre specie, legato al significato nell’uomo. In questo senso, l’accesso al simbolico complica le emozioni umane e richiede una ricostruzione di significato arbitraria.
Perché quindi dovremmo procedere a ri-conoscere le nostre emozioni?
La prima motivazione deriva dal piano medico.
In una sintesi del pensiero di Ryke Geer Hamer, Mambretti e Séraphin introducono un concetto molto importante: “l’esistenza di una triade indissociabile di: mente-cervello-corpo, tre unità che funzionano sempre insieme”.
Non è possibile comprendere il significato degli avvenimenti umani – tra cui la malattia e le sue leggi – se dimentichiamo che “l’uomo è un tutt’uno composto di emozioni (ciascuno vive gli avvenimenti della vita in modo del tutto personale), cervello (la nostra centrale di comando per la sopravvivenza e la continuazione della specie) e corpo (l’unico campo di azione a disposizione del cervello)” (Mambretti e Séraphin, 1999, p. 11).
La seconda motivazione è riconducibile agli effetti dell’atteggiamento contrario, cioè all’incapacità di entrare in contatto con le emozioni e di condividerle.
Due studi ci riportano ad emozioni di intensità e durata estremamente diverse, per condurci alla stessa conclusione.
James Gros e colleghi hanno valutato le conseguenze sui rapporti interpersonali dei tentativi di eliminare le emozioni, non potendole esprimere, attraverso una sperimentazione su tre gruppi di donne.
Nella ricerca, si chiedeva ad alcuni soggetti femminili di guardare una scena sgradevole di un film. Ogni donna successivamente incontrava un’altra donna che non conosceva: le donne di un gruppo dovevano dissimulare l’espressione delle emozioni; un altro gruppo reagiva in modo spontaneo, mentre le donne del terzo gruppo dovevano rivalutare l’esperienza sgradevole, mantenendosi calme e pensando alla propria situazione attuale.
“Nei soggetti che eliminarono le emozioni, e anche nelle donne che incontrarono, si verificò un aumento della pressione sanguigna, che non si verificò in quelle che rivalutarono le emozioni e in quelle che reagirono in modo naturale. La repressione inoltre limitava i rapporti – la reattività emotiva è importante per la comunicazione – e riduceva la possibilità di un incontro amichevole con le donne che intervenivano nella seconda parte dell’esperimento” (Gross 2002, cit. in Oatley 2004, p. 77).
Reda (2001, pp. 70-71) riporta uno studio di Pennebakerin in cui vengono intervistati sulla loro esperienza trentatré ebrei sopravvissuti all’Olocausto. E’ risultato che “gli Ebrei sopravvissuti con elevata tendenza alla disclosure avevano avuto meno malattie “organiche” rispetto a quelli con difficoltà ad aprirsi per comunicare i loro vissuti”.
L’adulto capace di gestire il dialogo con se stessi (dialogo interno) e con gli altri per condividere i propri problemi; l’adulto in grado di aprirsi, per comunicare e condividere anche le proprie esperienze traumatiche (la cosiddetta disclosure) risulta più resistente e meno vulnerabile a malattie e disturbi. Processi come la rumination, come la condivisione sociale – social sharing – collegati alla gestione delle emozioni, garantiscono un continuum di fronte a eventi traumatici.