Il libro La fabbrica connessa indaga e sviluppa la prospettiva italiana. L’«Industria 4.0» non costituisce una rivoluzione improvvisa che cambia tutte le regole del gioco, ma un’ evoluzione nel corso della quale le imprese, in un primo momento, si limiteranno a effettuare investimenti di ammontare contenuto finalizzati ad aggiornare i macchinari già in loro possesso allo scopo di sviluppare le competenze necessarie e di esplorare le potenzialità che le nuove tecnologie sono in grado di offrire loro. È importante pertanto che gli imprenditori, soprattutto piccoli e medi, che rappresentano più dell’80% del tessuto manifatturiero nazionale, comprendano che esiste un percorso graduale che li può condurre, nell’arco di qualche anno/lustro, verso un nuovo paradigma tecnologico, partendo dalle tecnologie esistenti e sviluppando progressivamente competenze e nuovi modelli di business. La gradualità dell’approccio comincia dall’estrarre informazioni da dati già in possesso dell’azienda, oppure nell’applicazione sensoristica su macchinari «vecchi» arrivando anche a connettere macchinari tra loro. Quest’ultima operazione (che costa al massimo qualche decina di migliaia di euro) prolungherebbe la vita utile degli impianti, permetterebbe di aumentare la produttività dell’impresa (tipicamente riducendo i consumi di energia e gli scarti di produzione) e consentirebbe al contempo lo sviluppo della cultura manageriale necessaria a concepire e implementare la trasformazione digitale. Queste pratiche di digitalizzazione di vecchi macchinari, mettono l’impresa nella condizione di sviluppare progressivamente le competenze dei propri dipendenti e di apprezzare i benefici della digitalizzazione comprendendone le logiche profonde sottostanti. Questa strategia permette dunque di «comprare tempo» con un limitato impegno finanziario e crea le condizioni per una piena digitalizzazione della manifattura italiana su un orizzonte temporale breve.
La visione «evolutiva» e non «rivoluzionaria» si collega con la profondità dei cambiamenti culturali che la digitalizzazione della manifattura richiede: occorre che gli imprenditori manifatturieri italiani sempre più «pensino digitale» e accettino la sfida del cambiamento nel momento in cui hanno le risorse per affrontare e vincere la sfida. Spesso, al contrario, l’eccessivo attaccamento a modelli tradizionali porta a una crisi progressiva, al termine della quale mancano le risorse per gestire il cambiamento necessario. Occorre pertanto sviluppare una capacità di gestire il cambiamento che non è solo tecnologico ma anche culturale, organizzativo e di strategie aziendali. La sfida dell’Industria 4.0 è particolarmente importante per l’economia italiana che soffre di una fase di stagnazione particolarmente prolungata: in Italia negli ultimi vent’anni (1995-2015) la produttività oraria del lavoro è cresciuta complessivamente solo del 5% mentre negli Usa è cresciuta del 40%, in Francia, Gran Bretagna e Germania di oltre il 30%. È pertanto evidente che la sfida della produttività e della difesa del ruolo centrale della manifattura è per il nostro paese decisiva: dall’esito di tale sfida dipendono probabilmente non solo il ruolo dell’Italia nello scenario internazionale e la possibilità di crescita del reddito nazionale ma anche la stessa tenuta sociale.Il tessuto imprenditoriale italiano è fatto di piccole e micro-imprese le quali hanno bisogno di essere guidate in questo cambiamento. I costi di digitalizzazione però sono sempre stati molto alti, specie per le piccole e medie imprese che non hanno risorse per poter assumere sviluppatori o personale qualificato. È emerso spesso come la principale difficoltà per chi si occupa di innovazione sia lo scontrarsi con la cultura prevalente in azienda, la sindrome del “not invented here”, del “si è sempre fatto così” perché cambiare, quelle di chi si vede in una situazione tanto tragica da non poter pensare all’innovazione: «Siamo in una fase di taglio dei costi». Quelle di chi preferisce procrastinare, scegliendo ciò che è urgente rispetto a ciò che può essere importante: «Ho troppe cose da seguire adesso». Quelle che puntano al pessimismo tecnologico: «No! È impossibile» . In tanti parlano di innovazione, ma nei fatti gli ostacoli sono enormi. Spesso sono essenzialmente culturali: la velocità del cambiamento e la complessità del contesto sono una sfida continua alle specializzazioni tradizionali e ai sistemi formativi nati nell’epoca lineare dell’industrializzazione. Forse, ancora più spesso sono ostacoli sociali: l’organizzazione di un’azienda o di un’istituzione tende a generare convenzioni e abitudini che per quieto vivere o per timore vengono messe in discussione malvolentieri. Eppure, l’innovazione è necessaria per sopravvivere in un contesto di grande trasformazione.
Il Ministero dello Sviluppo economico ha introdotto nella legge di bilancio il voucher manager e l’albo per gli innovation manager. Il “Voucher Manager” contenuto all’art 2 del decreto del 07/05/2019 rappresenta un contributo a fondo perduto per le pmi un incentivo di 25 milioni per gli anni 2019, 2020 e 2021, con esso le aziende potranno spendere i voucher ricevuti dallo Stato “per l’acquisto di prestazioni consulenziali di natura specialistica finalizzate a sostenere i processi di trasformazione tecnologica e digitale attraverso le tecnologie abilitanti previste dal Piano Nazionale Impresa 4. 0 . In dettaglio, le micro e le piccole imprese – che hanno un fatturato annuo non superiore rispettivamente a 2 milioni e a 10 milioni – ricevono un voucher che copre il 50% dei costi della consulenza fornita dall’innovation manager o dalla società di consulenza fino a un massimo di 40 mila euro. Per le medie imprese, invece, che fatturano non più di 50 milioni, il contributo è pari al 30% e il limite delle spese rimborsabili è di 25 mila euro.È possibile anche ricevere fino a 80 mila euro per le imprese che hanno stretto un “contratto di rete”: il contributo in tal caso è del 50% ma si intende per l’intera rete .
L’art 5 del decreto definisce i requisiti che deve possedere l’innovation manager per iscriversi all’albo, tale figura risulta fondamentale per l’ ammodernamento e la digitalizzazione degli assetti gestionali e organizzativi dell’impresa.
Nonostante le manovre messe in atto dal governo per cercare di rendere l’Italia una nazione digitalizzata e al passo con i tempi dell’innovazione esistono ancora gravi ritardi. Alla luce dei dati emersi dal bilancio degli ultimi due anni dall’applicazione del Piano Industria 4.0 sin dal 2017 emerge secondo l’ex ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che per digitalizzare le imprese italiane non basta più investire in nuove tecnologie, ma soprattutto nella competenza di chi sappia farle funzionare rendendole più competitive.
A ottobre 2018, il Politecnico di Milano certificava lo stato dell’arte della digital transformation per industrie e PMI: dopo una diffidenza iniziale, il 55% delle aziende ha adottato soluzioni 4.0, Nel rapporto però emergeva anche un altro dato: solo il 30% delle imprese dichiarava di avere le competenze e quindi le risorse umane necessarie per saper usare quelle tecnologie a beneficio della produzione e della crescita imprenditoriale. Tradotto in termini semplici: di avere in azienda chi sappia estrarre dai dati e dalle tecnologie applicate le informazioni utili a indirizzare la strategia di impresa.
Dopo la crisi economica le pmi italiane hanno necessità di puntare sui mercati esteri. Secondo un’indagine di Confapi, la confederazione italiana della piccola e media industria privata, il 57,4% delle imprese dichiara di aver bisogno di figure manageriali di elevata professionalità in grado di supportare e sviluppare i processi produttivi e organizzativi. Di queste il 34,4% non può prescindere da un export manager capace di scegliere i nuovi potenziali mercati di riferimento e analizzare le specificità di ogni Paese e contesto economico. Il 23% individua nell’innovation manager un ruolo chiave per accelerare i processi di innovazione e digitalizzazione dell’impresa. Davanti ai cambiamenti richiesti al mondo delle pmi, il 23% degli intervistati da Confapi ha dichiarato di essere consapevole che i mercati sono caratterizzati da una forte concorrenza internazionale, il 21% lamenta la mancanza di un’adeguata qualificazione del management aziendale, il 17% di un’adeguata qualificazione delle risorse umane.
A seguito del processo di digitalizzazione numerosi studiosi sostengono che il lavoro sia in via di sparizione. A confutare tale teoria il professor Luciano Pero ,il quale ritiene che garantire livelli occupazionali e di competitività sia possibile se si innova non solo il parco macchine e il software, ma anche e soprattutto il modo di organizzare il lavoro in azienda e nella filiera produttiva. Secondo Pero «non ci sono settori in cui non si possa organizzare diversamente il lavoro: anche in quelli apparentemente rigidi. «La rivoluzione può avvenire a prescindere dalle dimensioni il piccolo imprenditore può essere innovativo se decide di investire e se è in condizioni di farlo, tanto quanto una grande impresa e nella sua esperienza ciò che conta è la capacità di chi dirige l’impresa di innovare: da noi non mancano gli “adattatori” ma gli innovatori».Anzi, Pero lo dice chiaramente: la formazione servirebbe farla non tanto o solo agli operai, ma ai manager, ai dirigenti, ai capi-d’azienda, cioè la fascia che ha più difficoltà oggi a cogliere e intuire la necessità di cambiamento per salvaguardare la competitività della propria impresa. Il docente smonta uno degli stereotipi più comuni in circolazione in questo momento: e cioè che la sostituzione del lavoro umano con quello dell’intelligenza artificiale sia inevitabile e non invece una scelta gestibile sia per le aziende più grandi sia per quelle con pochi addetti. Certamente i processi di trasformazione mettono seriamente in discussione paradigmi consolidati e pratiche storiche, non ultimo il sistema di relazioni industriali ma la convinzione di fondo è che le persone, la loro intelligenza, le loro capacità organizzative, il loro lavoro appunto, facciano la differenza. Il robot ruba il lavoro quando il lavoro non è accompagnato da una evoluzione delle performance e della produttività: dobbiamo accettare la sfida dell’avanzamento tecnologico perché sarà la mancanza di commesse a far perdere il posto e non il fatto di aver introdotto un sistema robotizzato». Quindi alla luce dei dati possiamo affermare come nel processo di cambiamento in atto è necessario integrare sia tecnologia che persone. «E’ importante capire che Industria 4.0 non significa inserire macchine nuove in una linea produttiva, ma armonizzare la tecnologia, le risorse umane con l’impresa», spiega il docente a La Nuvola Non solo tecnologia, quindi: l’impresa 4.0, nella sua declinazione più completa, prevede l’integrazione tra i sistemi fisici tradizionali e quelli digitali in tutte le fasi del ciclo produttivo, per un suo adattamento in tempo reale. Dalle nozioni finora elencate guardiamo un esempio concreto di come l’ innovazione aiuta le aziende a trovare soluzioni migliori.