Leadership II parte
Dott.ssa Alaia
Evoluzione delle teorie
In tempi relativamente recenti si è compreso che la leadership ottimale non è quella definita in un elenco di attributi che un leader deve avere. Piuttosto é semmai la sua capacità di “leggere” gli eventi insieme alla sua organizzazione e di adattare velocemente l’attività organizzativa al nuovo presente.
E’ difficile identificare storicamente il passaggio attraverso il quale i leader hanno iniziato a essere scelti per le loro capacità e non per la loro appartenenza di classe. Da quando, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, si sono sviluppati gli studi sulla leadership, l’attenzione si è spostata da modelli di leadership adatti alla produzione fordista e molto simili a quelli dei generali degli eserciti – “command and control” – a studiare e individuare, verso la fine degli anni ’70 attraverso gli studi di Hersey e Blanchard, modelli di “situational leadership”, che sono in sostanza adattamenti dello stile di leadership alla situazione di business nella quale i leader operano (bisogni del mercato, tipologia di personale, etc.).
Moltissime, ancora oggi sono le organizzazioni che utilizzano questo approccio, che ha in parte il limite di accentrare nel leader tutto il processo decisionale e di interpretazione delle condizioni ambientali nel quale il suo business opera.
L’aspetto più significativo della teoria della leadership situazionale, elaborata da Hersey e Blanchard negli anni ’70, è di aver superato i “dogmatismi” delle precedenti teorie sulla leadership, affermando che non esiste un modo “giusto” di essere leader, non è possibile definire un solo stile di leadership che sia coerente alle diverse possibili situazioni ma, al contrario, lo stile deve essere scelto in funzione delle diverse situazioni e delle diverse caratteristiche dei destinatari che il capo si trova di fatto a gestire.
Si tratta pertanto di una visione sistemica in cui intervengono tre variabili: il “capo”, il “dipendente” e le caratteristiche del contesto nel quale si sviluppa la relazione fra i primi due. Tali variabili si influenzano reciprocamente. Vale la pena di approfondire qualche elemento tecnico di tale teoria.
Gli autori propongono una chiave di lettura del concetto di “maturità professionale” considerando sia la “competenza nel lavoro” sia la “maturità psicologica”, vale a dire il rapporto che il dipendente sviluppa con il ruolo e con l’organizzazione. La “competenza nel lavoro” è la competenza professionale specifica, l’esperienza maturata nello svolgere un particolare lavoro, nel raggiungere un determinato obiettivo.
La “maturità psicologica” è la disponibilità e la volontà di assumersi in prima persona le responsabilità che derivano dagli obiettivi assegnati: l’impegno nello svolgere il proprio lavoro, lo spirito di iniziativa, l’affidabilità relativa ai comportamenti organizzativi, il senso di appartenenza al team e all’organizzazione. Se un individuo o un gruppo, possiede sia maturità lavorativa che maturità psicologica, emerge un’altra dimensione della maturità che ne rappresenta un po’ la sintesi: l’autonomia, che definiamo qui come la capacità di stabilire obiettivi di lavoro personali elevati ed ambiziosi, ma nello stesso tempo realistici e raggiungibili. La maturità comunque non è un valore assoluto né stabile: essa deve essere rapportata alle caratteristiche dell’individuo, a quelle del gruppo, del compito e dell’ambiente.
Per arrivare alla teoria situazionale è necessario compiere due ulteriori passaggi. Il primo è il modello di Black e Mouton, detto “Grid Manageriale”. In questo approccio lo stile di direzione viene individuato attraverso un diagramma sulla cui ascissa viene collocato l’ ”orientamento al compito” e sull’ordinata l’ “orientamento alla dimensione sociale”. Il comportamento di guida – orientato al compito, è composto da tutte le attività rivolte a fornire al collaboratore indicazioni operative e normative, determinazione di obiettivi, organizzazione del lavoro, addestramento, coaching, determinazione delle scadenze e dei controlli. Il comportamento di cura della relazione è composto dalle attività tese a favorire un buon rapporto capo-dipendente e a fornire sostegno e supporto da un punto di vista più psicologico, relazionale: interazioni frequenti, coinvolgimento, scambio di opinioni, interesse per i problemi personali, ascolto attivo, comunicazioni franche ed esplicite, capacità di dare feed back costruttivi, capacità di esprimere apprezzamenti, ecc.
Pur essendo l’ideale un mix di queste due dimensioni fondamentali, ciò che distingue uno stile da un altro è proprio il prevalere di una dimensione sull’altra e l’intensità di questi comportamenti.
Ultimo passo per comprendere il modello è quello di mettere in relazione i diversi livelli di maturità dei collaboratori con un possibile stile del capo, cercando di individuare le maggiori coerenze in termini di efficacia.
Maturità bassa – > Stile Direttivo(eccesso: autoritarismo). Il leader prende le decisioni per i collaboratori, pianifica ed organizza il loro lavoro; il ruolo dei dipendenti consiste nel fare ciò che viene loro ordinato.
Maturità medio-bassa – > Stile Persuasivo (eccesso: paternalismo o manipolazione). Le decisioni rimangono una responsabilità del capo, ma vengono spiegate e motivate, con l’obiettivo di coinvolgere maggiormente il collaboratore attraverso una significativa attenzione relazionale.
Maturità medio-alta – > Stile Partecipativo (eccesso: assemblearismo). Capo e collaboratore decidono insieme le scelte qualificanti il lavoro e l’attenzione prevalente del leader sarà tesa ad agevolare l’assunzione di decisioni autonome da parte del collaboratore (leadership empowering).
Maturità alta – > Stile Delegante (eccesso: scarica barile o lassismo). In questa situazione l’intervento del leader è limitato alla definizione delle linee di riferimento generali e alla disponibilità a fornire ai collaboratori aiuto e supporto solo quando viene richiesto; la supervisione e controllo è solo sui risultati e non sul processo.