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Autore Marco Agujari
Introduzione
Cercando di sviluppare un ragionamento intorno alle “ nuove tipologie di lavoro “ che, ci auguriamo, caratterizzeranno l’occupazione dei nostri figli, e così della nuova classe lavoratrice, ritengo opportuno focalizzare l’attenzione su due documenti, a mio avviso essenziali, per dare un significato, soprattutto oggettivo, al ragionamento che qui mi accingo a esaminare, sia pur in breve sintesi.
Il primo documento riguarda una accurata classificazione, fatta a livello europeo, sulle nuove forme di lavoro create nel corso dell’ultimo decennio, il secondo si proietta nel futuro e disegna lo scenario occupazionale, non felice, che sembra attendere i lavoratori nei prossimi anni.
News forms of employment questo il titolo della copiosa ricerca, pubblicata nel marzo 2015 a Dublino da Eurofound [1]
Dallo studio emerge che a seguito dei più recenti sviluppi sociali ed economici, quali ad esempio l’esigenza di una maggiore flessibilità richiesta in particolare dalla parte datoriale, in tutta Europa sono emerse nuove forme di occupazione che hanno trasformato, radicalmente, il tradizionale rapporto tra datore di lavoro e dipendente.
Esistono poche informazioni su queste “nuove forme di occupazione”, sulle loro caratteristiche specifiche e sulle ripercussioni che hanno sulle condizioni di lavoro e sul mercato del lavoro.
Proprio per colmare tale carenza di conoscenze, Eurofound ha realizzato un esercizio di mappatura a livello europeo volto a individuare le tendenze emergenti, in seguito al quale sono stati classificati nove ampi tipi di nuove forme di occupazione.
I 9 nuovi tipi di lavoro
Nove. Tanti appunto sono secondo Eurofound i nuovi tipi di lavoro che si sono sviluppati in Europa negli ultimi 15 anni. Il rapporto analizza nel dettaglio ognuno di essi, ne presenta vantaggi e difetti, e lo fa al fine di sollecitare una discussione su costi, benefici, sulla cosiddetta flexicurity e su come bilanciare le richieste del mercato del lavoro e quelle di protezione sociale e sicurezza.
Qui di seguito riporto l’elenco delle categorie analizzate, tutte molto complesse dal punto di vista di giuridico sia per la loro intrinseca atipicità contrattuale che per la talvolta incerta collocazione nel settore, ora del lavoro autonomo, ora del lavoro dipendente.
A margine fornisco la traduzione estesa in lingua italiana per renderne più chiaro e fruibile il significato, non solo agli addetti ai lavori.
- employee sharing – codatorialità, in cui un singolo lavoratore è assunto congiuntamente da un gruppo di datori di lavoro per soddisfare le esigenze di risorse umane di più imprese; questa forma si traduce in un’occupazione permanente a tempo pieno per il lavoratore;
- job sharing – lavoro ripartito, in cui un datore di lavoro assume due o più lavoratori affinché occupino congiuntamente una posizione specifica, combinando due o più lavori a tempo parziale per garantire la prestazione lavorativa a tempo pieno;
- interim management – gestione temporanea, in cui esperti altamente qualificati sono assunti a tempo determinato per un progetto specifico o per risolvere un determinato problema, integrando in tal modo le capacità esterne di gestione nell’organizzazione del lavoro;
- casual work ; lavoro occasionale, in cui un datore di lavoro non è obbligato a fornire regolarmente lavoro al lavoratore, ma ha la flessibilità di avvalersi delle sue prestazioni all’occorrenza;
- ICT-based mobile work – telelavoro mobile, svolto tramite dispositivi TIC, in cui i lavoratori possono svolgere il loro lavoro da qualunque posto in qualsiasi momento, grazie alle moderne tecnologie;
- voucher-based work- lavoro retribuito tramite buoni in cui il rapporto di lavoro si basa sul pagamento dei servizi attraverso un voucher acquistato da un ente autorizzato che copre sia la retribuzione che i contributi della previdenza sociale;
- portfolio work (lavoratore autonomo per gran numero di clienti); lavoro su portafoglio, in cui un lavoratore autonomo lavora per un ampio numero di clienti, svolgendo lavori su piccola scala per ciascuno di essi;
- crowd employment (nuvola virtuale di datori e lavoratori su ampi progetti);
- collaborative employment (lavoro a collaborazione, autonomi, microimprese).
Non è questa la sede per disquisire, in particolare a livello giuridico, sulle singole figure “ contrattuali “ sopra richiamate eppur appare necessario avviare una riflessione affinché si possa scongiurare, ab origine, il pericolo che il lavoro convenzionale sia sostituito da forme di occupazione meno favorevoli per i lavoratori e quindi garantire una solida protezione sociale, tutela dei diritti e buone condizioni di lavoro .
L’impegno trova radice e giustificazione anche alla luce di quanto tra poco si dirà in merito al secondo studio , dal titolo The Future of Jobs, pubblicato dal World Economic Forum in occasione degli incontri tenuti a Davos, in Svizzera, dal 20 al 24 gennaio u.s., sul tema “Mastering the Fourth Industrial Revolution”.
Come emerge da tale rapporto stiamo vivendo la quarta rivoluzione industriale, [2] che comprende una serie di evoluzioni e sviluppi in settori quali l’intelligenza artificiale e il machine-learning, la robotica, le nanotecnologie, la stampa 3D, la genetica e le biotecnologie.
E’ opinione comune che, come le precedenti, questa rivoluzione sia destinata a cambiare per sempre la società e l’economia mondiale con novità che avranno ripercussioni positive, ma anche negative, sulla vita dei cittadini e così dei lavoratori nel mondo intero.
La ricerca presentata al World Economic Forum illustra l’evoluzione del lavoro fino al 2020 sulla base delle indicazioni raccolte tra i responsabili delle Risorse Umane di 350 tra le maggiori aziende mondiali (tra cui 150 sono incluse tra le 500 di Fortune). Complessivamente queste imprese rappresentano circa 13 milioni di dipendenti. L’analisi si riferisce a 15 tra i maggiori Paesi nel mondo (tra cui Cina, India, Francia, Germania, Italia, Giappone, Uk e Usa).
Vengono fornite informazioni dettagliate su nove settori: Industria e costruzioni, Commercio, Energia, Servizi finanziari, Sanità, ICT, Media & Intrattenimento, Logistica, Servizi professionali.
Nei prossimi 5 anni fattori tecnologici e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro.
Alcuni (come la tecnologia del cloud e la flessibilizzazione del lavoro) stanno influenzando le dinamiche già adesso e lo faranno ancora di più nei prossimi 2-3 anni.
L’effetto sarà la creazione di 2 nuovi milioni di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo – quindi – di oltre 5 milioni di posti di lavoro.
L’Italia ne esce con un pareggio (200mila posti creati e altrettanti persi), meglio quindi di altri paesi europei ed occidentali come Francia e Germania.
A livello di gruppi professionali le perdite si concentreranno nelle aree amministrative e della produzione: rispettivamente 4,8 e 1,6 milioni di posti distrutti. Secondo la ricerca compenseranno parzialmente queste perdite l’area finanziaria, il management, l’informatica e l’ingegneria.
Dopo aver letto tali dati è giusto concludere, come hanno titolato molti giornali, che la quarta rivoluzione industriale causerà, entro il 2020 ( quindi tra soli quattro anni ) la riduzione di cinque milioni di posti di lavoro nel mondo, rimpiazzati da robot e intelligenza artificiale?
Non credo che tale conclusione sia propriamente corretta.
Lo studio è stato infatti introdotto da un lancio ufficiale che dice espressamente così:
“The Fourth Industrial Revolution, combined with other socio-economic and demographic changes, will transform labour markets in the next five years, leading to a net loss of over 5 million jobs in 15 major developed and emerging economies” (fonte Weforum.org)
Dunque lo studio non mette in diretta correlazione machine learning e robotica – con la perdita dei posti di lavoro.
Non si parla di posti persi per colpa della tecnologia – una semplificazione affascinante, comoda, usata da chi, come il presidente dell’Antitrust, ha sostenuto in una intervista al Corriere che Internet ha distrutto occupazione.
Si parla invece di come le trasformazioni portate anche dalla tecnologia incideranno sul mercato del lavoro portando alla perdita di complessivi 5 milioni di posti.
L’equazione robot=ladri non esiste, come scrive opportunamente la giornalista Barbara D’Amico.