E davanti a me scorrono immagini dei caffè in Medio Oriente dove intorno ai tavolini si chiacchiera tra amici e si sorseggia lentamente il caffè, dei templi induisti simili alle nostre chiese nelle loro cerimonie, dei ristoranti di Tel Aviv dove si respira un’atmosfera europea e moderna, dei giovani che a latitudini diverse sono accomunati dallo stesso modo di vestire, dalle spiagge del Sud America dove sembra di essere in Italia ad agosto, dei matrimoni sparsi nel mondo a cui ho partecipato, diversi nei riti ma uniti dagli stessi sentimenti di affetto famigliare.
Quello che mi lega all’altro viene da lontano e sono i sentimenti umani: gli affetti, il dolore, la gioia, il pianto, l’allegria, la disperazione, reazioni che condividiamo tutti insieme e che mi fanno vivere l’altro non come essere diverso ma come una parte di me.So che il mio pensiero può sembrare troppo elegante, poetico ed elitario da poter essere comunicato in una società di massa dove esistono problemi reali di convivenza e dove spesso la presenza degli stranieri mina un contesto sociale già fragile. Ma la rabbia e la ghettizzazione non penso siano la risposta. Credo, al contrario, che ci voglia tempo, accoglienza e rispetto affinché gli stranieri non abbiano più paura di esistere nel nostro mondo e possano imparare a convivere ed accettare la cultura del paese in cui vivono. La diversità spero che sia vista come una crescita, senza dover per forza stabilire una gerarchia in cui esista una parte più forte o migliore delle altre.
Nell’ottobre del 2009, in occasione della giornata missionaria mondiale, nella mia città è stato organizzato un giorno di preghiera aperto a tutte le religioni.
Un mio caro amico, in prima linea sul tema dell’accoglienza degli stranieri, mi ha fatto leggere una preghiera scritta da Xhulian, un ragazzo albanese di 18 anni che vive in Italia da tre anni:
“Signore ci presentiamo a te con un gommone segno di un passaggio importante della nostra vita. Il gommone che ha accompagnato la nostra speranza in un futuro migliore; lo stesso gommone che per molti altri ha significato la fine di un sogno. Te lo portiamo insieme a
lla bandiera della pace, desiderio di tutti i popolo che sono l’uno all’altro straniero, perché ognuno trovi la propria patria e la possa trovare anche oltre i suoi confini, al di là del mare, là dove sono altri uomini e donne come noi.”
Ciò che noi italiani abbiamo vissuto in passato, lo sradicamento dalla nostra terra verso nuove terre di accoglienza, la speranza di una vita migliore, la lontananza dagli affetti, la nostalgia di casa, la difficoltà ad uniformarsi a nuove regole e capire lingue sconosciute, oggi è esperienza di altri popoli e noi dovremmo riuscire a comprendere meglio di altri ciò che questo significa. Ci vogliono ponti, non muri, ci vogliono coraggio ed umiltà nell’accettare gli altri, curiosità nell’aprirsi a culture diverse e desiderio di imparare e confrontarsi.
Forse, a poco a poco, riusciremo a vivere una vita che non umili quella degli altri, che non giudichi chi arriva da fuori e che non disconosca il proprio simile soprattutto se è debole, se è povero, se è escluso. Questo atteggiamento potrà arricchirci di sentimenti e far maturare l’umanità che c’è in ciascuno di noi.
Gandhi nel discorso tenuto alla Conferenza delle relazioni interasiatiche a Nuova Delhi il 2 aprile 1947, disse di credere in un unico mondo e che non c’era altra scelta visto che il solo messaggio possibile è quello dell’amore. A distanza di così tanti anni, la modernità del pensiero di Gandhi è attualissima e quello che fa pensare è la lunga strada che questo mondo deve ancora fare.