Come direbbe Max Frisch “Volevamo braccia e sono arrivati uomini”.
Lo scrittore svizzero nel 1967 si riferiva alla grande immigrazione di italiani alla ricerca di migliori prospettive ma questa frase ben si adatta all’Italia di oggi dove, dietro ai numeri, ci sono persone che hanno un vissuto, speranze, progetti e che intendono condividere non solo spazi.
Una sana ed efficace comunicazione fra persone di cultura (e religione) diversa comporta rendere partecipe l’Altro, metterlo a conoscenza di conoscenze e informazioni essenziali, consentire l’espressione di “autenticita’” lasciando da parte un’autoreferenzialita’ tanto rassicurante. Questo si realizza dando voce a quegli stranieri-strani-estranei che generalmente devono affrontare il quotidiano con una minore disponibilita’ di risorse in termini di competenza e legittimazione.
Nei fatti comunicazione interculturale significa favorire un sereno e sincero confronto, consentire denunce, favorire la richiesta di un maggiore ascolto, proposte di modificazioni, l’espressione di disagi, malesseri, timori non ancora razionalizzati.
Allo stesso tempo la comunicazione deve fungere da strumento di espressione del disagio delle popolazioni invitate (o “costrette”) ad accogliere, a uscire da se stesse, ad ascoltare le buoni ragioni dell’altro, mettendo in discussione i propri paradigmi di riferimento. Da questo punto di vista la comunicazione interculturale coltiva un elemento donativo e crea relazioni costruttive.
Non e’ banale questa sfida che ci interpella in modo costante su questioni apparentemente dicotomiche e confliggenti “mi apro-non mi apro”, “ascolto-non ascolto”, “convivo-escludo ”. A questi interrogativi non corrispondono risposte ovvie, ma continui rimandi alla decisione fondamentale che ci riporta alla radice dei termini “incontro” e “scontro” dove centrale e’ la decisione di andare verso l’altro “in-contra” o di allontanarsi dall’altro “ex-contra”.
Per essere fruttuosa la risposta deve essere costruttiva ma non banale e soprattutto lontana dalla logica “tutto e subito”. La comunicazione interculturale e’ infatti un processo comunicativo particolarmente complesso, la cui evoluzione si coglie nel lungo termine, senza necessariamente condurre all’accettazione istintiva, all’apertura reciproca. “Dateci tempo” si senti’ dire un giovane immigrato alla sua venuta in Italia trenta anni fa. “Dateci tempo di assimilare la vostra presenza; finora siamo andati noi all’estero, per noi e’ una cosa nuova”. Di tempo ne e’ passato ma difficilmente possiamo quantificare quanto e come sia cambiata l’attitudine verso coloro che sono pur sempre percepiti come “estranei”.
Per il carico di conseguenze che comporta la comunicazione interculturale generalmente e’ faticosa, un “lavoro” vero e proprio guardando all’etimologia del termine, un impegno continuo di ricostruzione identitaria che costringe all’investigazione della propria relazione col diverso. Comunicare con un immigrato e’ un esperienza profonda che implica la disponibilita’ a esporre le proprie emozioni e spinge a cambiare il “punto di vista”, a vedere con altri occhi. Comunicare infatti non e’ solo mettere in gioco regole fonetiche, grammaticali e semantiche ma con-vivere e con-dividere informazioni ma anche emozioni.
Comunicazione interculturale significa pertanto sviluppare in modo privilegiato capacita’ empatiche, dar vita a un lento e continuo processo di cambiamento su questioni di interesse personale e collettivo. In questo sta la sfida, la decisione di mettersi in gioco con atteggiamenti aperto e “infantile”, disponibile ad ammettere la possibilita’ di un cambiamento, mettendo in conto che l’altro “puo’” avere ragione.
Cio’ non significa eliminare il “nostro” punto di vista, i nostri occhi, ma semplicemente cambiare posizione. Come in fotografia si cerca la luce migliore per dare l’effetto voluto evitando sotto o sovraesposizioni dannose all’immagine, cosi’ ci e’ richiesto di prestare attenzione a questa nuova luce sulla nostra societa’ evitando che l’orizzonte del paesaggio fotografato sia storto.