Noi spendiamo sul lavoro una ampia porzione del nostro tempo: essere demotivati, oltre a crearci problemi con l’organizzazione a causa della nostra conseguente inadeguata professionalità, ci rovina la vita, tanto in ufficio quanto a casa, dato che ufficio e casa sono ambienti intercomunicanti: se il mio capo mi riprende, poi, a casa, sarò nervoso con mio figlio; per converso, se lavoro serenamente, rimango in questo stato emotivo anche al di fuori del contesto lavorativo, fino a quando non incontro mia moglie (e sarà lei a condizionare il giorno dopo il mio umore in ufficio).
Cosa ci spinge a “timbrare il cartellino” ogni giorno alle 08:30, a collaborare, talora con difficoltà, con capi e colleghi che non abbiamo scelto?
Di seguito riporto, molto concisamente, solo alcune teorie sulla motivazione che si sono susseguite nel corso del tempo.
Nel 19° secolo uno studioso, Frederic Taylor, riteneva di dover stimolare la motivazione del lavoratore mediante sistemi che incentivassero la produttività, quali il salario, l’introduzione del lavoro a cottimo, la partecipazione ai profitti, etc. (de Quevedo: “Poderoso caballero Don Dinero !“).
Si è poi considerato (Mc Clelland) che non di solo pane vive il dipendente, ma c’è chi ricerca il potere (desiderio di influenzare le scelte degli altri), il successo (capacità di raggiungere le mete prefissate)e la partecipazione (capacità di creare e mantenere una vasta rete di legami sociali con altri individui): egli ha il bisogno di riuscire, con il lavoro, oltre a percepire una retribuzione, anche ad appagare le personali soddisfazioni (Freud: “L’uomo primitivo si rese piacevole il lavoro come sostituto ed equivalente dell’attività sessuale“).
Un altro studioso, Abraham Maslow, ha suddiviso le possibili motivazioni posizionandole in una piramide divisa in stadi, come raffigurato nel disegno:
Nel primo livello, alla base della piramide, troviamo i bisogni fisiologici, necessari per l’esistenza in vita. Essi sono la fame, la sete, il sonno, il movimento, etc., e per soddisfarli il dipendente richiede all’azienda una remunerazione. Solo dopo che essi sono stati soddisfatti, possono nascere altri bisogni (se sento il morso della fame non mi pongo l’obiettivo di ottenere una promozione a più alto ruolo).
Soddisfatti i bisogni fisiologici, dunque, vengono sentiti i bisogni di sicurezza: sicurezza nei luoghi di lavoro, stabilità del posto, etc. (si pensi alle folle di candidati che partecipano ai concorsi per ottenere un posto fisso nello Stato). Soddisfatti in toto o in parte anche questi, l’individuo sente il bisogno di appartenere ad una azienda, di essere accettato alla pari in un gruppo di lavoro (altrimenti, come sottolinea Sallustio: “Chi non prende parte alla fortuna dei potenti ha spesso parte nella loro rovina”).
Soddisfatti anche questi ultimi, l’individuo sente il bisogno di essere stimato dai colleghi con i quali interagisce (un pessimista, W. Fontana, afferma che: “L’azienda è il luogo ove persone adulte subiscono continuamente traumi infantili“). Infine, soddisfatti tutti i bisogni sopracitati, l’individuo vuole dare un senso alla propria vita, vuole realizzarsi (chi come megadirettore galattico-siderale, chi come mago dei computers, chi come campione di burraco, chi come mamma, chi quale venditore capace di vendere i frigoriferi agli eschimesi più riottosi, chi come volontario alla Misericordia, etc. (J. Conrad: “Il lavoro non mi piace, ma mi piace ciò che si ottiene dal lavoro: la possibilità di ritrovare se stessi“).
Un altro studioso, Frederick Herzberg, afferma che la motivazione del dipendente è funzione derivata da due tipi di fattori, i fattori igienici e quelli motivazionali.
I primi, i fattori igienici, sono essenziali perchè il dipendente non sia insoddisfatto, ma non sviluppano ulteriore motivazione: tipici sono le condizioni di lavoro, lo stipendio, la sicurezza, la qualità del controllo, la mansione, le politiche di gestione aziendale, i rapporti interpersonali, etc..
I secondi, i fattori motivazionali, sono necessari invece per sviluppare le motivazioni del dipendente, in modo che possa raggiungere elevate performances: tipici fattori motivazionali sono il successo, il relativo riconoscimento, l’assunzione di responsabilità, un lavoro interessante, la crescita professionale, gli avanzamenti di ruolo, etc..
Variamente combinandosi, questi due tipi di fattori possono diminuire lo scontento dei dipendenti e migliorare la loro motivazione.
Un altro studioso, V.Wroom, riprendendo C.Argyris, pone la motivazione in relazione all’aspettativa del risultato e al grado di attrattività del risultato stesso. In altre parole, il lavoratore si chiede, prima di iniziare un compito:
– posso fare quanto mi vien chiesto? Ne ho le competenze?
– quale è la probabilità che, se faccio un buon lavoro, io ottenga una ricompensa?
– che valore ha per me la contropartita che ne deriva?
Un ultimo studioso (A.Bandura) mette in relazione la motivazione con la sensazione dell’efficacia personale (con una sintesi un pò dozzinale: il lavoratore che si crede capace di svolgere un certo compito è più motivato ad eseguirlo di un altro che pensa di non farcela).