Per un’efficace comunicazione, l’emittente (che siamo noi) deve tener presente chi immagina essere il ricevente (che è il target), quale sia il codice più efficace per comunicare con quel ricevente, quale canale utilizzare per raggiungere la maggior parte dei riceventi interessati (o interessanti), quale sia il contenuto di volta in volta adeguato (il contenuto non è una costante) e in quale contesto si stia operando. Per far questo conviene:a. usare il codice con consapevolezza (la lingua italiana è un codice);
b. conoscere il canale e usarlo con cognizione;
c. rispettare le consuetudini, ma anche sforzarsi di usare le convenzioni in maniera non convenzionale.Conoscere il codice e rispettarlo può essere più creativo che stravolgere la sintassi; Marinetti comunicava in modo tradizionale il suo proposito di comunicare in modo innovativo;
d. introdurre lentamente le innovazioni;
e. essere concisi; quello che si può levare senza pregiudicare la funzione non serve: funzionalismo, ergonomia, rispetto delle risorse, sviluppo sostenibile, less is more, quello che non c’è non si rompe. La concisione ha una sua propria bellezza;
f. rispettare l’interlocutore; non è scontato, e vuole anche dire: non essere ambigui o non creare comunicazioni faticose. Semplificare il lavoro al ricevente è un dovere: anche il ricevente ha un duro lavoro da fare;
g. essere coerenti e uniformi (uso dell’italic, del logo: in una parola, seguire un manuale di stile);
h. essere accurati: non è una scelta di un momento, ma un’abitudine da acquisire, un difficile impegno quotidiano. Il grado di ordine è dato dalla cosa più sprecisa (come il collo di bottiglia, come l’imbuto, come il soldato più lento).
Questi sono precetti validi per molte situazioni comunicative, cui si riescono agilmente ad adattare. Assieme concorrono al buon esito della comunicazione, che è (ne diamo un’altra delle infinite definizioni): essere capiti proprio per tutto quello che si voleva comunicare (il contrario è: essere capiti solo in parte, o peggio: essere fraintesi).
Detto questo, può essere utile tenere presenti i compiti minimi:
a. selezionare il messaggio: scegliere un argomento (o una sua parte) che stia a cuore al ricevente, perché non si ammira un messaggio privo di idee solo per la padronanza del codice, perché non si può accettare di non essere in grado di dire cosa sia importante o no. Il ricevente deve sentirsi circondato dal messaggio, deve avvertire che esso è in grado di armonizzarsi con estrema facilità con il mondo in cui interagisce: in questo modo la comunicazione prende vie naturali, quelle a minimo sforzo e a minima resistenza. Quest’azione di armonizzazione indotta prende il nome di metodo Kobayashi (dall’omonimo personaggio del film del 1995 I soliti sospetti, di Bryan Singer): prendere spunto da ciò che ci circonda (o da ciò che circonda il ricevente) per comunicare efficacemente.
È bene chiedersi che effetto si desideri raggiungere: dire, informare, far capire, far immaginare, far credere, far eseguire e così via.
Una volta fatto questo: sforzarsi di essere competenti e preparati; non divagare, perché allontana dalla comunicazione; non ripetere, perché riduce il tempo a nostra disposizione: se consideriamo lo gnomema come l’unità minima di attenzione che il ricevente può mettere a nostra disposizione, bisogna riuscire a stare dentro alla quantità di essi che ci viene concessa da chi ci ascolta;
b. avere le idee chiare su quali siano le risorse (sia come canali, che economiche) necessarie, sufficienti, minime, massime. E vedere se a disposizione non ce ne siano di già pronte. Meglio usare formati e materiali standard;
c. fare attenzione a ciò che viene detto dagli altri (che abbiano lo stesso da dire, che parlino allo stesso pubblico, che si trovino in un contesto commisurabile o che stiano comunicando nel solito momento/spazio); può migliorare il nostro messaggio, può evitare che sia ripetuto il messaggio di altri;
d. partendo dalla constatazione basilare che a nessuno importa profondamente degli altri, rispondere a se stessi, in maniera soddisfacente, al perché il nostro messaggio debba venire ascoltato, al perché anche il soldato più lento ci metterà a disposizione almeno un suo gnomema, tenendo presente che gli obblighi non sono il metodo più efficace, a meno che non esistano delle sanzioni. Decisamente meglio l’usabilità che è, più o meno: faccio così perché a me torna meglio fare così, perché sono obbligato dal mio libero arbitrio;
e. rielaborare le proprie scelte ripercorrendo su e giù questa scaletta. Vuol dire continuare a migliorare.
Consigli sull’uso delle immagini o dei suoni è difficile darne. Variano in funzione del contesto e della moda. Sullo stile della lingua, invece, scegliendo solo ciò che è buono per tutte le comunicazioni, qualcosa si può provare a dire, consapevoli del fatto che fare il contrario è altrettanto lecito, purché sia espressione di una volontà consapevole, e tenendo conto del fatto che storie di successo o claim vincenti e durevoli sono nati proprio intorno a errori deliberati.
Le allitterazioni non sempre sono allettanti. Non è detto che il congiuntivo non si deve più usare. Le frasi fatte sono minestre riscaldate. Non è funzionale non prestare attenzione nel non evitare che possano non esserci troppe negazioni. Non usare… troppo spesso… i puntini di sospensione. Le “virgolette” stanno passando di moda. Non bisogna generalizzare: chi generalizza è un cretino. È meglio che le frasi passive siano evitate. Cerchiamo spesso, più o meno, di essere specifici. In fondo alla frase la parola che sta peggio quella proprio il verbo è. Neanche i fans dell’inglese scrivono al plurale i termini stranieri. Non è d’uopo fruire di lessemi desueti. Non è bene essere ripetitivi o prolissi, ma non sta bene neanche dire meno di quello che